Nahr Al Bared, campo profughi
palestinese nel nord del Libano, vicino Tripoli.
È giovedì, la mattinata è afosa, ma nel pomeriggio si scarica su
campo un violento temporale che trasforma la terra rossa delle strade,
in fango che si attacca alle scarpe. Il temporale ha però la capacità di
rendere l’aria, carica di terra, ferro e smog, più respirabile.
Mi trovo nella sede di una associazione che si occupa di diritti dei
minori, e il coordinatore della stessa, Milad, sta raccontando a me e ad
un altro volontario di come i profughi di Narh Al Bared hanno vissuto la
guerra con Israele nel 2006 e il bombardamento di Nahr Al Bared ad opera
dell’esercito libanese nel 2007.
Al termine del racconto, Milad, mi comunica che la sera avrebbero
disputato la semifinale del torneo del campo profughi. Non riesco a
nascondere il mio viscerale e infantile desiderio di giocare. Il
coordinatore senza battere ciglio, sorride e ricordandomi che quella è
una semifinale e che la sua squadra ha sempre vinto il torneo, mi da un
appuntamento alle 19.30 al centro dove alloggio con gli altri volontari.
Lo saluto colmo di gioia ed eccitazione per quella possbilità che mi era
stata appena offerta. Giocare a calcio con ragazzi di un'altra cultura,
che vivono una realtà a noi quanto mai incomprensibile, rendeva ai miei
occhi quella partita un avvenimento carico di aspettative.
Con puntualità araba, cioè alle 20.00, Milad e la sua squadra mi
recuperano al centro, dove lascio gli altri volontari alla loro cena.
Ricordo ancora nitidamente la preoccupazione mia e degli altri
volontari, prima di uscire dal centro. Stavo andando a giocare a calcio
in un campo profughi, con ragazzi sconosciuti e soprattutto non facenti
parte dell’associazione che si occupava della nostra sicurezza.
Ma non ci si poteva più tirare indietro.
Il tragitto per arrivare al campo, è stato surreale. Abbiamo
attraversato a piedi stradine buie in mezzo a sterpaglie e case
distrutte. Milad, conosciuto il pomeriggio stesso, continuava a parlarmi
in perfetto inglese, con voce serafica, e i ragazzi davanti a noi
camminavano e scherzavano. L’arabo parlava, ma la mia testa pensava alle
mille emozioni che stavano imperversando nel mio corpo, sentivo
l’adrenalina salire; trovarsi con dei profughi in mezzo al niente nel
buio della notte, ti porta a pensare nell’immediato al peggio… quanto mi
stavo sbagliando.
Usciamo dalla zona abbandonata e distrutta per continuare il percorso
tra case trasudanti odori, musica e vita. Ogni casa, ogni angolo era
occasione per Milad e per il resto del gruppo per salutare qualcuno con
un affetto che mai avevo sperimentato. Abbracci, baci, strette di mano e
pacche sincere, avevano fatto totalmente sparire il senso di smarrimento
e paura che mi avevano accompagnato per la prima parte del tragitto.
Ora mi sento in mezzo a loro; saluto abbraccio e sorrido in maniera
spontanea, questa loro fraternità apparentemente innata, inizia a
contagiarmi. C’era chi addirittura baciava la propria mano prima di
battere il cinque. Non riuscivo a capire come si potesse essere così
fraterni in un posto dove nessuno ha niente, anzi dove tutti si portano
dietro storie tremende, dove tutti hanno perso la casa o è stata
demolita; e ad essere sinceri faccio ancora fatica a capire.
In ritardo di un’ora, arriviamo al campo, ma siamo comunque i primi. Nel
giro di pochi minuti però gli spalti si niziano a popolare. La gente
scende dai muri, sale dai balconi, tutti prendono posta per vedere
questa partita. Sono subito presentato a tutta la tifoseria; vedo nei
loro occhi la fierezza di avere un occidentale in squadra per quella
sera, e mi chiedo cosa abbiano da essere fieri.
È il momento di entrare in campo. Il terreno è chiaramente
impraticabile. La terra rossa del rettangolo di gioco, a causa della
pioggia del pomeriggio, si è trasformata in fango alto quasi dieci
centimetri. In alcune zone si fatica addirittura a tenere l’equilibrio;
ma arrivato fino li, non avrei mai rinunciato a giocare.
Gli spalti, formati da scalinate di cemento con alle spalle una
palazzina ovviamente crivellata di colpi di fucile, sono gremiti di
ragazzi di tutte le età. Ognuno con la proprio tazza di tè e con il
narghilè, si accingevano ad assaporare questa semifinale. È degno di
nota che nessuna donna fosse presente.
Non è importante che vi sveli il risultato, sappiate solo che a fine
partita a Milad ho detto “c’è sempre una prima volta”. Ma se devo essere
sincero del risultato non mi è importato nemmeno un attimo.
Quella sera mi sentivo in mezzo all’ombelico del mondo. Ero all’interno
di un popolo che no ha paura nonostante tutto, di dimostrare tenerezza
reciproca. Quella sera, ho visto negli occhi di quel popolo tormentato
da 60 anni di ingiustizie e guerre, la possibilità di coltivare
l’affetto verso i propri vicini.
Pensavo a quando, in Italia, non alziamo lo sguardo per salutare il
vicino di casa, oppure quando con voce rotta sull’ascensore riusciamo a
chiedere solo a che “piano scende?”, e ci sentiamo in agitazione se lo
spazio si fa stretto.
Non voglio trovare alcuna morale in questa serata, solo riportarla in
queste poche righe, per ricordare di come quella sera, la tenerezza di
quel popolo mi abbia emozionato.
Grazie Milad, grazie Nahr Al Bared.
Jacopo
Ge, 19/05/2009